Nel panorama dei disagi psicologici contemporanei assistiamo a una profonda trasformazione rispetto all’epoca di Freud. In una società che ci impone più o meno esplicitamente di essere sempre felici, produttivi e resilienti, la psicoterapia rischia di ridursi a un dispositivo di adattamento, una tecnica per aggiustare la persona che, equiparata a una macchina, deve tornare a funzionare. Pubblicità e siti psicologici si adattano sempre più a queste aspettative e richieste del mercato e della società. Il rischio è però di perdere di vista cosa sia veramente la psicoterapia e, in ultima istanza, cosa significhi essere umani.

Un tempo dominato dalla rimozione

Ai tempi di Freud, la clinica psicoanalitica si confrontava con un tipo di sintomatologia che aveva la sua radice nella rimozione. I sintomi isterici, i lapsus, i sogni erano, secondo lui, manifestazioni deformate di un desiderio che non trovava posto nella coscienza, perché inconciliabile con la legge morale e sociale interiorizzata. Il teatro sul quale si svolgeva il dramma psichico era quello dell’inconscio rimosso, dell’indicibile, del non detto. Il compito dell’analista era, allora, ridare parola al desiderio, far emergere ciò che era stato escluso, reintegrandolo nel racconto della soggettività.

Il nuovo paradigma: la saturazione

Oggi, quel tipo di clinica appare in larga parte superato. Non perché l’inconscio non esista più, ma perché si manifesta in modi diversi. I sintomi contemporanei non sono più effetti del rimosso, bensì della saturazione. Non viviamo più sotto il giogo di un Super-Io castrante che proibisce, ma sotto la pressione costante di un Ideale dell’Io performante che ci impone di adattarci alle aspettative. Essere sempre presenti, lucidi, brillanti, produttivi, resilienti, “felici” — non per sé, ma per rispondere all’immagine ideale che ci viene costantemente rimandata dagli altri, dai social, dalla cultura della prestazione.

Il soggetto contemporaneo non si ammala perché desidera ciò che è proibito, ma perché non riesce a stare al passo. Crolla sotto il peso della richiesta implicita di funzionare sempre. Il fallimento, la stanchezza, l’ansia, il panico non sono più il segno di una trasgressione, ma quello di una frattura interna: non riesco a essere come dovrei essere.

La clinica della prestazione

Questa nuova forma di sofferenza psichica è visibile quotidianamente in terapia. I pazienti raccontano ansie pervasive, senso di inadeguatezza, paura del giudizio, crolli improvvisi che si verificano nel momento in cui non riescono più a sostenere il ritmo della vita sociale, affettiva, lavorativa. Ma non è solo la clinica a segnalarci questo cambiamento. Basta osservare l’offerta psicologica pubblicitaria e il linguaggio che la accompagna: resilienza, self-efficacy, coaching, migliorare l’autostima, tecniche per pensare positivo, strategie in 5 passi per eliminare la tristezza, l’ansia, il panico, la “negatività”.

La promessa sottesa è sempre la stessa: elimina il sintomo, torna produttivo, rientra nel flusso della vita funzionale. E se possibile, fallo in tempi brevi, con risultati garantiti.

Psicologia come ancella del mercato

In una società che esige efficienza e ottimizzazione, anche la psicologia rischia di diventare uno strumento funzionale al mantenimento dell’ordine vigente. Il disagio viene patologizzato, e quindi medicalizzato: se soffri, c’è qualcosa da “aggiustare”, qualcosa da “curare”, magari da sopprimere con farmaci o da superare con tecniche standardizzate.

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La psicologia si piega così alla logica del mercato, divenendo l’ancella di un sistema che non vuole che il soggetto si interroghi, ma che torni rapidamente a essere utile, produttivo, presente. Il sintomo viene visto come errore di sistema, non come messaggio del soggetto.

Il sintomo come messaggero

Ciò che si perde, in questa impostazione, è l’essenziale: il sintomo, il disagio, non sono semplicemente ostacoli. Sono segnali, chiamate interiori, messaggeri di una parte di noi che sta cercando di dire qualcosa. Moltissimi pazienti arrivano in terapia chiedendo “come eliminare l’ansia”, “come non soffrire più per amore”, “come non pensare più a certe paure”. Ma raramente — almeno all’inizio — si chiedono: cosa mi sta dicendo questa ansia? Cosa rivela di me questa paura? Perché provo questa tristezza in questo momento?

Il sintomo è scomodo proprio perché parla una verità che spesso non vogliamo ascoltare.

Il coraggio di guardarsi dentro

Interrogarsi sul proprio sintomo non è un compito facile. Implica il rischio, reale, di mettere in discussione equilibri, relazioni, valori, ruoli sociali. Spaventa, perché ci obbliga ad avvicinarci a un’immagine di noi meno conforme, meno adattata, meno “piacevole”. Ma è proprio in questo movimento che inizia la trasformazione autentica.

Chi si guarda davvero dentro, non lo fa per compiacersi delle proprie ferite. Lo fa per assumere la responsabilità del proprio desiderio. E questo è, inevitabilmente, un processo doloroso, ma anche emancipativo.

Una psicoterapia critica, non normativa

Una psicoterapia che esalta soltanto l’autonomia, la resilienza, la self-efficacy rischia di diventare uno strumento dell’economia neoliberista, non una cura del soggetto. Se il disagio viene trattato solo come ostacolo al funzionamento, e la cura solo come riparazione, allora lo spazio terapeutico smette di essere luogo di verità, per diventare officina dell’adattamento.

La psicoterapia, al contrario, dovrebbe mantenere uno sguardo critico e sovversivo. Sovversivo perché ricorda che il soggetto non è mai riducibile alla sua funzione sociale. Sovversivo perché difende il diritto del sintomo di non adattarsi. Sovversivo perché offre un luogo dove l’Altro — il terapeuta — non risponde con soluzioni pronte, ma con domande che aprono abissi.

Assumere la responsabilità del proprio desiderio

La psicoterapia, dunque, non serve a guarire un individuo “rotto”, ma ad accompagnare un soggetto che soffre perché vive, che si interroga perché desidera, che è inquieto perché è vivo. Non serve a “sopprimere” il dolore, ma ad accoglierlo come occasione di conoscenza e trasformazione.

Non è un percorso comodo. Richiede di abbandonare illusioni, maschere, appigli. Richiede di entrare in contatto con la propria mancanza, la propria verità, la propria libertà.

Ma è solo attraversando questo passaggio che il soggetto può avvicinarsi a qualcosa che assomigli davvero a un Sé più autentico. E, forse, anche a una vita meno prestazionale — ma più viva.

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