La morte di tre carabinieri e il ferimento di una ventina di persone a Castel D’Azzano, nel Veronese, rappresentano uno di quei casi di cronaca che, come i femminicidi, costituiscono un segnale di un tratto culturale della nostra società. Questi eventi indicano un profondo malessere sociale che supera il singolo episodio e ci invita a riflettere sugli strumenti più adeguati per affrontare le situazioni più critiche.

L’intervento dello Stato, là dove occorre far applicare la legge con la forza pubblica, è a fondamento della sicurezza di una comunità democratica. Tuttavia, prima della forza vi sono altri strumenti su cui possiamo contare: l’ascolto, il dialogo, la negoziazione e la mediazione.

La tragedia di Castel D’Azzano parte da molto lontano. Ha avuto le sue origini dalle disavventure legali e finanziarie della famiglia Ramponi: i fratelli Dino e Franco e la sorella Maria Luisa. Quest’ultima, lanciando una bombola Molotov in un ambiente saturo di gas, ha fatto esplodere il casolare di campagna dove hanno trovato la morte i tre carabinieri.

I media ci hanno raccontanto, nei dettagli, tutti i precedenti tentativi di conciliazione che sono stati tentati dal 2012, anno in cui hanno inizio, con un incidente stradale, i drammi della famiglia Ramponi. La soluzione consisteva nel liberare il casolare, con un appezzamento di terreno, in esecuzione di un ordine giudiziario emanato a fronte dei saldare i debiti contratti con una banca locale dai tre fratelli.

Non abbiamo la possibilità di accertare se quei tentativi di conciliazione siano stati condotti con scrupolo, profondità e professionalità. I media, da parte loro, hanno pensato bene di raccontarci anche la storia di un cugino dei Ramponi, che negli Anni Ottanta – in una vita fatta di alcol e violenza – è morto nell’esplosione della sua casa, dovuta a una perdita di gas. Il che induce la pubblica opinione a credere che quello dei Ramponi sia in qualche modo un destino segnato.

Gli stessi media ci hanno raccontato dell’isolamento sociale di Maria Luisa, Dino e Franco. I tre fratelli non avevano alcun rapporto con il vicini di casa; e ancor meno con il paese di Castel D’Azzano. Mostravano ostilità persino verso il postino. Hanno minacciato in modo pesante il curatore fallimentare. Tant’è che si è arrivati alla scelta del Tribunale di Verona di intervenire – manu militari – in un casolare pieno di bombole del gas e di bombe Molotov.

È stato un intervento realizzato con le forze speciali, che tuttavia non ha evitato la tragedia. La sproporzione tra intervento militare, come in un’operazione contro terroristi o mafiosi, e lo sgombero di un casolare risulta subito evidente. E pone molti interrogativi. Così come pone molte domande il ritratto – tra lo psichiatrico, l’esclusione e la devianza sociale – che i media hanno composto di Maria Luisa, Franco e Dino.

L’azione dei media nel criminalizzare una persona – come dimostra il caso di Lorenzo Bozano, il “biondino della spider rossa” – piuttosto che i ritratti di tipo psichiatrico o ritagliati sulla “devianza”, sono il modo migliore per non capire le situazioni. E sono la via più facile per non riflettere su un dramma che ha commosso tutta l’Italia, stretta attorno all’Arma dei Carabinieri.

Il conflitto e cosa può fare la mediazione

“La tragedia di Castel D’Azzano, al di là del caso specifico, è il segnale di come le nostre culture siano orientate verso la polarizzazione, lo scontro e la scelta dell’azione violenta. Si sceglie la strada della violenza per affrontare i conflitti, anziché tentare una forma di dialogo”, fa notare Agostino Portera, professore ordinario di Pedagogia Interculturale all’Università di Verona. “La negoziazione e la mediazione sono, al contrario, strumenti utili per prevenire il ricorso allo scontro armato. Sulla mediazione, soprattutto, è importante aver presente di come essa consenta di comprendere la reale natura del conflitti, per poi ricercare la soluzione migliore. Il conflitto non è di per sé negativo: diventa tale quando non lo si gestisce cercando una soluzione adeguata”.

“Nel caso specifico di Castel D’Azzano – su cui occorre riflettere con prudenza, non avendo tutti i dettagli della vicenda – è mancata, a mio avviso, una cura preventiva nei confronti delle tre persone che hanno causato la tragedia“, osserva il professor Portera. “La nostra è una cultura riparativa: si interviene dopo la violenza. È invece fondamentale la scelta di una cura educativa: quella cura che previene il disagio, e quindi l’atto violento, e che può intervenire prima che il disagio si manifesti. In questo modo, si lavora perché il disagio si affronti meglio e non si ripresenti. È importante, insomma, non aspettare che la tragedia si manifesti; e quindi agire sulla prevenzione. In questo senso, possono fare molto anche i servizi sociali”.

I segni di un disagio umano e sociale

Di certo abbiamo a che fare con una situazione di disagio estremo, sia sul piano umano che sociale. Siamo di fronte a persone che presentano un disagio forse psicologico, sicuramente sociale ed economico, che le porta a radicalizzare la loro posizione, spiega Ivana Danisi, mediatrice e docente del Master in Mediazione Interculturale, Comunicazione e Gestione dei Conflitti. La radicalizzazione di una posizione solitamente conduce, sull’altro fronte, a radicalizzare la posizione opposta. A Castel D’Azzano abbiamo così il caso di tre contadini che, con un atto radicale, hanno espresso il bisogno di vivere in quel territorio; mentre dall’altro lato si registra la radicalizzazione della risposta dello Stato, con l’impiego delle forze dell’ordine che, per legge, sono tenute a intervenire in questi casi.

“Di sicuro sono stati fatti tentativi per arrivare a un accordo, prima di dover ricorrere alla forza pubblica. Tuttavia, possono essere stati saltati alcuni passaggi nell’idea di una sicurezza di ordine sociale“, sottolinea Danisi. “È poi importante interrogarsi sul disagio sociale, sul malessere di certi casi personali e sociali: quando il malessere è acuto, infatti, c’è una reazione acuta che sfocia nella violenza. Ci stiamo, del resto, rendendo conto che vi è un profondo malessere nella nostra società, al punto che le persone più vulnerabili arrivano ad atti estremi. Vanno percorse tutte le strade prima di arrivare all’uso della forza: non è detto che possano approdare a delle soluzioni, perché a volte si tentano mediazioni sociali senza ottenere risultati. Tanto dipende dalle persone che ti trovi di fronte”.

Gli sfratti esecutivi si fanno con la forza pubblica, come prevede la legge. Di qui la necessità di interrogarsi sulle fasi precedenti l’intervento di polizia: chi sono le persone oggetto di sfratto, qual è la loro condizione, quali sono i loro bisogni, se è possibile accettare le loro proposte”, spiega Ivana Danisi. “L’ascolto, in prima battuta, e poi la mediazione, sono dispositivi importanti che possono aiutare, che vanno nell’ordine della sicurezza sociale, perché tutelano sia chi deve intervenire fisicamente; e sia le stesse persone destinatarie dell’azione giudiziaria. A prescindere dal caso specifico di Castel D’Azzano, se saltiamo i passaggi dell’ascolto nel tessuto sociale, allora la le risposte sono polarizzate, sono forti e sono reattive. E purtroppo sono violente”.

La domanda scomoda: come si arriva allo scontro violento?

È importante interrogarsi su come possano essere gestite diversamente certe situazioni ad alto rischio. È inoltre fondamentale riflettere su cosa abbia provocato una situazione di scontro totale, polarizzazione violenta e alta tensione distruttiva.

Come mai si è arrivati al punto di dover mandare le forze speciali dei Carabinieri e della Polizia? Questa è la domanda fondamentale”, osserva Laura Baccaro, criminologa e psicologa giuridica, che fa parte dell’Associazione Psicologo di Strada ed è autrice di molti testi che hanno al centro la violenza, sia di genere che nel mondo del lavoro. “Dobbiamo interrogarci sul perché persone con difficoltà psicologiche, economiche e sociali arrivino al gesto estremo della violenza. Non penso solo al caso di Castel D’Azzano, ma anche al suicidio di un anziano nel Milanese, mentre lo stavano sfrattando dal suo appartamento”.

“C’è un clima culturale e un certo tipo di mondo che vede l’uso della violenza e della forza – sia essa privata (e quindi illegale) sia essa pubblica – come unica soluzione. Sembra che le persone debbano essere trattate e costrette solo con la forza”, sottolinea Laura Baccaro. “Vediamo la forza sempre più come unica soluzione, mentre – nel frattempo – le libertà, come cittadini, si restringono sempre di più. Ecco che alcune reazioni violente -certamente da condannare ma che vanno interpretate – sono l’espressione di una difesa dal totalitarismo del controllo e della violenza. E sono l’espressione drammatica di una vera e propria opposizione al sistema totalitario in cui ci siamo infilati come società“.

Armi, guerra e violenza come scelte culturali

Possiamo concordare sul fatto che la strage di Castel D’Azzano si inserisce in un contesto culturale che vede la guerra, le armi e la violenza come scelte preferibili nei momenti di crisi. È lo stesso contesto culturale che invita a “mettere in galera e buttare le chiavi” persone sospettate o imputate, prima ancora della condanna in un processo. È lo stesso contesto che criminalizza la “diversità”: quella dovuta all’origine straniera di una persona, alla diversa condizione sociale ed economica, alla fragilità psicologica legata alla malattia mentale, alla marginalità dovuta al fatto di vivere in una certa zona della città.

Anche la stessa profilazione etnica dei possibili autori di reato – in un supermercato piuttosto che in un controllo di polizia – fa parte di quella cultura e di quel contesto che vedono la forza decisa e la risposta dura, senza mediazioni, come unica via percorribile. Si tratta di una cultura e di un contesto che nei media trovano l’ambiente adatto per crescere e propagarsi: tanto che si parla più di soluzioni violente, eversive oppure militari e si tematizzano assai meno le soluzioni efficaci, percorribili attraverso la negoziazione e la mediazione.

Carabinieri e Polizia hanno dato – e continuano a dare – un grande contributo nella lotta al terrorismo, alla mafia e alle diverse forme di criminalità, più o meno violente. Per questo motivo, laddove possibile, è necessario investire in forme di negoziazione e mediazione che rendano l’intervento della forza pubblica l’ultima risorsa. Inoltre, è fondamentale promuovere un’educazione alla gestione dei conflitti, perché – come sottolinea il professor Portera – il conflitto non è di per sé negativo. Tutto degenera, invece, quando non si vuole o non si è in grado di gestirlo, lasciando che sfoci nella violenza e nell’eversione.

Nell’educazione ai conflitti rientra anche l’educazione all’umanità, come dimostrato dalla tragica vicenda di Castel D’Azzano. Maria Luisa Ramponi, responsabile della strage, è stata salvata dagli stessi carabinieri che hanno subito quell’attacco. Come dichiarato in un comunicato dal Sindacato Unitario delle Forze Militari (Usmia), “dovere, disciplina, senso di giustizia, altruismo e rispetto per la vita hanno prevalso persino sulla rabbia di quei momenti indicibili. In un mondo spesso segnato dalla violenza e dalla vendetta, la scelta di salvare chi ha compiuto il male più atroce rappresenta un faro di speranza, un richiamo alla grandezza dell’umanità.”

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