Se nel 1890 abbiamo fatto saltare la City, perché non dovremmo far saltare anche il Tesoro americano?

Javier Milei, attuale presidente della Argentina in carica, profeta del libero mercato con la Bibbia di Friedman in tasca e la benedizione di Donald Trump nel cuore, è il nuovo “paladino della libertà” che, appena arrivato alla Casa Rosada, ha scelto di inginocchiarsi di fronte al dollaro come a un dio d’oro, promettendo fedeltà eterna a Washington. Mentre il Tesoro americano firma assegni e accordi, Milei firma rinunce: alla sovranità, alla moneta nazionale, al futuro di un popolo che si trova a barattare la propria indipendenza per qualche punto di spread in meno.

Trump lo chiama “amico”, lui risponde “sì, maestro” e nel frattempo, milioni di argentini affrontano tagli, inflazione e un’economia che, anziché liberarsi, si incatena a decisioni prese a migliaia di chilometri di distanza. Il risultato è un Paese che si svuota di prospettive e pieno di slogan: una nazione ridotta a laboratorio ideologico dove le teorie di Chicago si sperimentano sulla pelle dei cittadini.

E se nel 1890 gli inglesi si erano innamorati delle vacche e del grano, oggi gli americani sembrano interessati alle anime. La differenza è che, stavolta, il guardiano del portafoglio è già dentro casa, con la bandiera a stelle e strisce appesa in salotto.

Ogni tanto la storia si diverte a farsi un selfie, con la stessa posa ma con abiti nuovi. Nel 1890, l’Argentina giovane, euforica, convinta di poter insegnare il tango alla finanza mondiale trascinò una delle più grandi banche inglesi, la Baring Brothers & Co., sull’orlo del baratro. Un secolo e rotti dopo, siamo di nuovo lì, con l’Argentina e il suo consueto fascino “da disastro annunciato” che ottiene miliardi di dollari di prestiti, questa volta non da Londra, ma direttamente dal Tesoro americano.

E mentre gli economisti si affannano a spiegare swap, spread e flussi di capitale, a noi argentini viene spontaneo pensare: se una volta abbiamo fatto tremare la Regina, magari oggi potremmo far sudare un po’ lo Zio Sam.

Londra 1890: la City va in crisi per colpa di un sogno argentino

Buenos Aires. Foto da Unsplash di Nestor Barbitta

Nel XIX secolo, l’Argentina era la promessa più sexy dei mercati emergenti: campi infiniti, carni succose, un’economia in espansione e una classe dirigente convinta di essere parente di Parigi. La Baring Brothers, banca aristocratica fondata nel 1762, vide in Buenos Aires un Eldorado. Finanziò tutto: ferrovie, ponti, palazzi, perfino il debito pubblico. Gli inglesi sognavano di trasformare la Pampa in una succursale del Commonwealth. Poi arrivò la realtà: cattivi raccolti, instabilità politica, spese folli e un debito che cresceva più velocemente del mate al mattino. Quando l’Argentina smise di pagare, la bolla esplose.

La Baring Brothers crollò come un soufflé mal cotto. Panico nei mercati, tremori nella City, sguardi allarmati verso la Banca d’Inghilterra. Si temeva un effetto domino globale. Alla fine, la Banca d’Inghilterra mise in piedi un salvataggio d’urgenza con altre banche: un proto-bailout ante litteram. La Baring fu salvata ma umiliata e l’Argentina affondata nella recessione, con la reputazione da “truffatrice del secolo”. Eppure un certo orgoglio restava: non è da tutti far saltare Londra col solo potere dell’insolvenza.

Washington 2025, il ritorno del prestito miracoloso

Gli Stati Uniti, tra una crisi geopolitica e una guerra commerciale, decidono di dare una mano all’Argentina o forse solo di tenere d’occhio la sua implosione. Il Tesoro americano, insieme a un gruppo di banche private, orchestra un piano di aiuti colossale: 20 miliardi di dollari in swap valutari per stabilizzare il peso, altri 20 miliardi in una “facilità di debito” per il settore pubblico e privato argentino, e una promessa d’amore condizionata alle prossime elezioni presidenziali.

Un totale potenziale di 40 miliardi di dollari, un assegno a sei zeri e una postilla lunga come un romanzo russo che gli americani chiamano “operazione supporto alla stabilità”. Noi, con più onestà poetica, la chiameremmo “seconda stagione della telenovela del debito”.

Come in un remake di un disastro annunciato – già nel 1890, infatti, gli inglesi credevano che l’Argentina fosse la promessa dell’Occidente civilizzato – oggi gli americani credono che sia una buona occasione per “riordinare” l’economia sudamericana tenendo a bada i cinesi e gli altri “pretendenti al trono”. Ma il copione resta lo stesso: il creditore è convinto di essere furbo, il debitore giura di essere cambiato e aver imparato le lezioni precedenti ed entrambi si illudono. Il finale è sempre un ballo tra default, inflazione e diplomazia.

L’unica differenza è che, stavolta, i dollari viaggino più veloci e i comunicati stampa risultino ancora più ipocriti.

Morale amara

Nel 1890 l’Argentina ha fatto tremare la finanza inglese con le sue obbligazioni. Nel 2025 fa battere il cuore americano con i suoi swap. Siamo passati dal debito di carta al debito digitale, ma la sostanza rimane sempre la stessa, quella di un popolo che vive perennemente sull’orlo dell’apocalisse e riesce, ogni volta, a trasformarla in un numero musicale. Quando l’Argentina balla con il tango col debito, il mondo trattiene il fiato e noi, con un bicchiere di Malbec in mano, ci godiamo lo spettacolo, pensando:

“Se abbiamo fatto saltare Londra, potremmo far impazzire anche Washington — ma con stile, sempre con stile.”

Buenos Aires. Foto di Sasha Make Stories da Unsplash

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