Ieri, 7 ottobre, ricorrevano i quindici anni dall’assassinio di Anna Politkovskaja. Per l’anniversario, sono puntualmente scaduti i termini di prescrizione per il mandante mai identificato dell’omicidio, come previsto dal codice penale russo. Il comitato di redazione della Novaja Gazeta, il periodico per il quale Politkovskaja aveva realizzato delle inchieste sulla guerra in Cecenia, ha dichiarato di voler chiedere la ripresa delle indagini.

Oggi, 8 ottobre, il caporedattore della Novaja, Dmitrij Muratov, è stato insignito del Premio Nobel per la pace insieme alla giornalista filippina Maria Ressa.

Nobel per la pace e politica

Tempismo perfetto, si potrebbe dire. Difficile che i membri del comitato norvegese non abbiano tenuto conto di quanto questa contiguità temporale possa parlare più di tante dichiarazioni ufficiali. Ed è evidente che sì, il Premio Nobel per la pace ha una matrice socio-politica, poiché è proprio negli intendimenti del suo fondatore, Alfred Nobel, che si dia il riconoscimento a coloro, persone od organizzazioni, che si adoperano per la risoluzione di conflitti, che lottano contro l’oppressione e per il riconoscimento di diritti egualitari.

Nel 1993 la Novaja Gazeta nasceva anche grazie al denaro offerto da Michail Gorbačëv e frutto del Nobel per la pace ottenuto dall’ex presidente dell’Unione Sovietica tre anni prima. Oggi, il giornale esce in due edizioni, quella di San Pietroburgo e di Mosca, tre volte a settimana, fa una tiratura che supera le 500mila copie e dal 2000 annovera ben sei vittime tra i suoi giornalisti e collaboratori.

«È il premio ad Anna Politkovskaja, non il mio», ha dichiarato Muratov ad Askanews. «È il premio di Yuri Shchekochikhin, Igor Domnikov, di Stas Markelov, di Anastasia Baburova, di Natalia Estemirova».

La giornalista russa Anna Politkovskaja, foto di Das blaue Sofa/Club Bertelsmann, CC BY 2.0 https://creativecommons.org/licenses/by/2.0

Un elenco di nomi che a nessuna redazione farebbe piacere pronunciare, perché se ancora c’è chi pensa che si tratti del lavoro più bello del mondo, oggi il numero dei giornalisti e delle giornaliste morti a causa della propria professione è tutt’altro che secondario.

Giornalisti sotto minaccia

Secondo i dati di Reporter senza frontiere sono 50 i giornalisti nel mondo uccisi nel 2020, un numero che sale a 937 negli ultimi dieci anni. Nei Paesi Bassi, fulcro dell’Europa, lo scorso luglio Peter R. de Vries, specializzato in inchieste sulla criminalità organizzata, è stato raggiunto da cinque colpi di pistola ad Amsterdam. In Italia, ad oggi sono una ventina i giornalisti sotto protezione perché oggetto di intimidazioni, minacce di morte e aggressioni a cui sono stati sottoposti, specie da organizzazioni criminali e reti mafiose. Ma è anche tra i manifestanti, lungo le strade delle nostre città, che sempre più di frequente i reporter possono subire aggressioni anche da parte di singoli cittadini.

Maria Ressa, in un frame dal docu-film di Marc Wiese del 2020, we hold the line.

Può sembrare un’iperbole scambiare le tensioni della piazza con le minacce con cui convivono i due destinatari del Premio Nobel per la pace 2021. Sicuramente, il clima di ostilità verso la libertà di stampa ha molti volti.

Ed il viso, lo sguardo, il sorriso di Maria Ressa – nessuno stereotipo di genere, Ressa riesce a sorridere anche davanti alle pressioni e alle ingiurie del governo filippino di Rodrigo Duterte – parlano a chi si sente il dovere di scoperchiare la marea manipolatoria messa in moto dal potere politico. Parlano a chi si sente in diritto di cercare la verità, che si sia giornalisti o cittadini, lettori, persone che sentono il bisogno di sapere, per poter essere libere.

Fake news, uno strumento di controllo

Non è forse un caso che la rassegna cinematografica di Internazionale Mondovisioni abbia selezionato tra i film dell’edizione 2021 proprio il docu-film realizzato dal regista tedesco Marc Wiese “We hold the line”, che documenta da vicino ciò che vivono Ressa e la sua redazione del sito di notizie Rappler, tra censure e minacce di ritorsioni violente da parte dello stesso Duterte.

La locandina del docu-film We hold the line, presentato dalla rassegna Mondovisioni di Internazionale, passata anche a Verona lo scorso settembre.

Passato anche a Verona, nel Cinema Nuovo San Michele, lo scorso 20 settembre, insieme ad altri tre documentari per la mini-edizione scaligera di Mondovisioni, in collaborazione con Heraldo, testimonia non solo la forza di Ressa, scelta dalla rivista Time come persona dell’anno nel 2018, ma la tenacia con cui un’intera rete di collaboratori “tenga la linea” editoriale. Dall’altra parte c’è una nube di fake news e di troll che imperversano sui social, sostenuti dallo stesso governo filippino. Un modo agile e pervadente per controllare un Paese e una forma di violenza che arriva anche alla persecuzione fisica, con incursioni negli uffici, live su Facebook in cui si chiamano a raccolta i sostenitori del governo per essere ancora più minacciosi verso i giornalisti al lavoro.

Ad oggi, Ressa è stata arrestata almeno dieci volte in meno di due anni. Al centro delle inchieste di Rappler, la corruzione del governo e la brutalità della campagna antidroga, che conta decine di migliaia di morti, omicidi avvenuti fuori da un percorso giudiziale istituzionale. Lo stesso Duterte ha ammesso più volte di aver ucciso. L’inchiesta è seguita e aggiornata in una sezione dedicata del sito. L’inchiesta costruita da Ressa sulla costruzione della propaganda sui social si può leggere qui.

La linea da non oltrepassare

Dal giugno 2016, da quando cioè Duterte è salito al potere, secondo il CPJ, il Committee to protect journalists, nelle Filippine sono stati minacciati 128 giornalisti e 10 sono stati uccisi, l’ultimo assassinio il 22 luglio scorso.

«Il governo non sarà contento, ma la nostra è una battaglia per la verità – ha commentato la co-fondatrice del sito investigativo -. E la verità non esiste senza i giornalisti. La libertà di espressione e di stampa riguarda non solo il futuro delle Filippine, ma delle democrazie in tutto il mondo».

In un intervento pubblico, contenuto nel documentario di Marc Wiese, Ressa chiede all’uditorio: «Qual è la linea che non oltrepasseremo mai?». Una domanda che ha in sé le ragioni di un Nobel e il fondamento di una professione, tanto bistrattata, anche internamente, spesso a ragione. “I giornalisti non sfidano l’ordine costituito. Descrivono soltanto ciò di cui sono testimoni. È il loro dovere, così come è dovere del medico curare un ammalato e dovere dell’ufficiale difendere la patria. È molto semplice: la deontologia professionale ci vieta di abbellire la realtà”.

Parole di Politkovskaja, anch’essa degna destinataria, in qualche modo, di questo premio. Sebbene sarebbe davvero un mondo migliore se non ce ne fosse bisogno.

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