Come sottolineava il sociologo Emile Durkheim, in una società i riti hanno la funzione di costruire o rinsaldare i legami interni alla comunità. Ora, sebbene siano passati oramai 75 anni, per la ricorrenza del 25 aprile questa funzione è lontana dall’essere raggiunta: ed è singolare perché, in un momento come questo in cui il tricolore ritorna ossessivamente dagli schermi tv, dai balconi, dalle campagne autarchiche dal basso, le reazioni mediatiche sono sempre divisive.

Giorgia Meloni. Foto Fabio Cimaglia / LaPresse

La polemica di Fratelli d’Italia (FdI), partito guidato da Giorgia Meloni, parte da lontano ma torna, in forma diversa, ciclicamente. Si tratta della richiesta degli sconfitti della seconda guerra mondiale di metterci una pietra sopra: richiesta non priva di senso, anzi, ma – nonostante la svolta di Fini a Fiuggi con Alleanza Nazionale nel 1995, dove si affermò che «La Destra politica non è figlia del fascismo» e si riconobbe esplicitamente il valore dell’antifascismo – non cogente al punto di recidere il cordone ombelicale con quella parte di elettorato che fa ancora esplicito riferimento a ideologie totalitarie. L’iniziativa del sindaco di Potenza Picena di trasformare il 25 aprile nella “festa dei caduti in guerra” o di Ignazio La Russa, senatore di FdI, che chiede una ricorrenza che accomuni anche il ricordo di tutte le vittime del Covid-19 sulle note della Canzone del Piave, vanno intese nell’accezione hegeliana della “notte in cui tutte le vacche sono nere”, ovvero una pacificazione che passa attraverso l’equivalenza dei morti in guerra a prescindere dalle motivazioni ideali.

Matteo Salvini

Sfrutta invece strumentalmente la ricorrenza Salvini, sia col benaltrismo di dichiarazioni come «Ecco mentre qualcuno canta Bella ciao ti escono tre camorristi di galera, cantare di meno e lavorare di più magari a qualcuno potrebbe essere utile», sia rispolverando vecchi cavalli di battaglia (l’immigrazione), sia con rivendicazioni libertarie contro il presunto regime illiberale del Governo Conte e dei suoi decreti per l’epidemia, così da posizionarsi nel campo moderato sgusciando via dallo spinoso conflitto ideologico.

Sono scontenti persino i partigiani dell’Anpi che non potevano accettare che, a causa delle norme antiassembramenti, i partiti potessero grazie alle celebrazioni appropriarsi della narrazione della resistenza. Per fortuna, si è trovata nel frattempo una soluzione ma non si può non notare la durezza della reazione dell’Anpi che definiva l’esclusione addirittura un “vulnus istituzionale“. Difficile non capirli, non resta loro molto altro: come diceva Abatantuono in Mediterraneo, «non ci hanno lasciato cambiare niente».

Dunque, a sentire i giornali, il rito non pare funzionare nella sua finalità aggregante e pacificatoria. Perché? In parte, per carenza di onestà. È vero che si ricorda la sconfitta dei nazifascisti, peccato che eravamo noi e, a vincere, sono stati russi e americani. Ci è voluta un’opera profonda di revisionismo assolutorio e gattopardesco e la probabile creazione a tavolino di una canzone, Bella Ciao, per puntellare un immaginario collettivo che ora sbiadisce. Insomma, ci sono buoni motivi per non sentire la festa del 25 aprile, specie se si condividono i principi costituzionali solo superficialmente: è la festa della (fallita) liberazione da noi stessi e ci dimostra che questo non è ancora un Paese ma, piuttosto, un insieme di bande che non hanno fatto i conti con la storia.

Ma c’è una speranza: il tempo. La maggioranza silenziosa, disinteressata, aumenta. La memoria storica svanisce, le polemiche sanno di muffa, la conflittualità diventa sempre più nostalgica, la livella di di Totò lavora indefessa. Chissà che, magari per il centenario, questa festa non diventi ciò che in parte è già, ovvero un inno alla vita, alla primavera, al barbecue e alle gite fuori porta. E senza polemiche.