Disco rotto maledetto. “State a casa” ci ripetono in loop. La fiera dell’ovvietà, dacché più del 90% degli italiani rispetta il lockdown. “State a casa”: il ritornello ripiomba – fastidiosissimo al suono – in tutta la sua povertà di prospettiva, celando un’antipatica inversione delle responsabilità (dalle istituzioni ai cittadini), lievitando in una stanca retorica del nulla di fatto. Hanno rotto le balle, posso dirlo? Ok, stiamo a casa e poi? Me lo chiedo da settimane. Me lo chiedo da cittadino responsabile che a casa ci sta (e ha la fortuna di lavorarci) per senso civico ancor prima che rispetto delle regole. Ma, scusate, il cervello – almeno quello – in quarantena non lo mando.

Nelle ore in cui si sta decidendo la prosecuzione del lockdown fino (almeno) al 4 maggio, ripenso a quello che ha scritto sul “Corriere della Sera” la settimana scorsa Paolo Giordano: «Mentre noi restiamo buoni e reclusi qualcuno dovrebbe chiarirci le regole della fase successiva». Invece, al riguardo, ancora si discute e perfino si litiga, anche all’interno del governo. Il premier Conte vorrebbe accelerare la riapertura, i ministri Speranza e Boccia frenano, mentre il comitato scientifico di Palazzo Chigi ci vuole ancora tutti reclusi perché «la salute viene prima» e sennò «vanifichiamo gli sforzi fatti».

Qui però abbiamo due problemi, caro Houston. Innanzitutto chi deve decidere? I medici, per mestiere e vocazione, è comprensibile che guardino solo al virus: per molti di loro finché non si ha il vaccino non si riprende. Un politico invece ha il dovere di una visione complessiva, sul “sistema-Paese”, che è un insieme di aspetti economici e dinamiche psicologiche dei singoli cittadini. E, a proposito, anche sul concetto di salute (che giustamente “viene prima”) potremmo discutere: salute è anche tenuta psicologica e morale dell’individuo. Che facciamo, dunque: ci barrichiamo in casa un anno in attesa del vaccino? Per schiattare di fame o depressione (non sottovalutate il nonnetto di Savona che si è accoppato perché non poteva vedere il nipotino). Ma poi con l’economia ferma chi li paga medici, infermieri e personale sanitario, definiti “eroi” disonorando così la loro straordinaria normalità? E chi li caccia i soldi per le pensioni dei nostri nonni che ci stanno giustamente tanto a cuore, al punto da lapidare chiunque timidamente provi (non per cinismo, ma per informazione) a ricordare l’età media delle vittime di Covid?

Ma soprattutto (ed è il secondo problema) non possiamo accettare che gli scienziati ci dicano in eterno che “se si torna a uscire vanifichiamo gli sforzi”. C’è un ingannevole ribaltamento di prospettiva in questa affermazione, che fa ricadere totalmente sui cittadini la responsabilità dell’emergenza. Un ribaltamento che si traduce più o meno così: si sta a casa per “combattere il virus”, anziché – come ci era stato detto – per “contenerlo” in attesa di nuovi posti letto e di terapia intensiva negli ospedali.

Ragioniamo: ora i dati dicono che l’emergenza sta scemando (non l’esistenza del virus, sono due concetti diversi), nel frattempo sono stati inaugurati ospedali Covid e nuovi letti in rianimazione. Non bastasse, la gran parte dei cittadini ha imparato a mettersi la mascherina nei luoghi chiusi e a stare a un metro di distanza. Insomma, ci sono tutte le condizioni per iniziare a convivere con il virus (in attesa della cura o del vaccino). Per questo sta diventando inaccettabile il refrain: «State a casa ancora altrimenti tutto torna come prima». Eh no, non ci sto. Se tutto dovesse tornare come prima significa che le istituzioni non hanno approfittato del nostro sacrificio. E’ ora di smetterla di indicare come centro di gravità permanente i cittadini: eroi o untori a seconda delle circostanze. Non siamo noi che combattiamo il virus, noi abbiamo accettato la reclusione per dar modo a chi di dovere di organizzarsi. Stiamo a casa, va bene, ma non ce lo possono chiedere a tempo indeterminato.