È presto per parlare di ricostruzione, però vale la pena pensare al valore simbolico dell’incendio che ha cambiato la storia di un monumento così iconico. Tra istinto di conservazione e società profondamente cambiate.

Camminare per Parigi, oggi, the day after, dev’essere stato surreale. Sono passate ventiquattrore dall’inizio del rogo nella cattedrale di Notre-Dame e restano in sospensione molte domande. Vogliamo i responsabili, capire come sia potuto accadere. Vogliamo dare un senso a un lutto simbolico, alla rovina del nostro personale skyline culturale, che ora riduce ancora di più la capitale francese alla silhouette della torre Eiffel e dell’arco di Trionfo.

Scorcio dell’ Île de la Cité prima dell’incendio di Notre-Dame

In pochissime ore, grandi finanziatori hanno promesso di donare 600 milioni di euro per la ricostruzione. Gioca molto l’impatto emotivo di questa perdita, ma viene da chiedersi come mai non ci sia stato tanto entusiasmo, quando nel 2017 fu dato l’allarme sullo stato precario dell’edificio e lanciata una raccolta fondi tramite due fondazioni, una francese e una statunitense, per riuscire a raggiungere i necessari quasi 150 milioni di euro per il restauro. Grazie a una prima tranche la scorsa estate è partito il primo cantiere, per proteggere le statue, fortunatamente rimosse l’11 aprile con un’operazione spettacolare, consolidare le pareti e il tetto. Erano anni che tra infiltrazioni, agenti atmosferici e inquinamento, si assisteva a un progressivo sbriciolamento del complesso: l’ultimo restauro ventennale risale al 1990, ma ha riguardato la pulitura della facciata e degli interni.

Mentre le fiamme divampavano e si temeva di non riuscire a contenerle, si sono sollevate anche delle voci che volevano ridimensionare la gravità del fatto in termini di danno storico artistico. Forse un tentativo goffo di contenere il dramma, fatto sta che la storia dell’arte non si qualifica esclusivamente in base all’antichità delle pietre, bensì acquista significato anche nell’intangibile che fa di un bene un patrimonio collettivo.

Stamane l’altare centrale di Notre-Dame è stato investito dalla luce del sole. Una luce che non è certo quella dei suoi albori tardogotici, né è spigolosa come quella della Révolution, che ne aveva trasformato gli spazi in tempio laico della Ragione. Un salto di significato ulteriore le è toccato in seguito durante la Prima Repubblica, quando l’edificio fu ridotto a magazzino di vini.

Le pietre della cattedrale di Parigi sembrano interpretare i mutamenti della storia in modo molto viscerale, quasi le toccasse interpretare le crisi a mo’ di rispecchiamento. Anche per questo motivo, ricostruirla così com’era prima dell’incendio costituisce un problema.

L’edificio che abbiamo conosciuto è frutto di un cantiere innovativo e di forte influenza nel dibattito storico-artistico occidentale. La necessità di riconsegnarlo degnamente alla città innesca nell’Ottocento un confronto che unisce intellettuali e cittadini nel concetto di ripristino, o meglio, del cosiddetto restauro stilistico. Tecnica e stile, ripresi dal tempo originario, diventano gli strumenti per riportare l’opera alle intenzioni del suo ideatore. Eugène Viollet-le-Duc da ieri sera non è mai stato così popolare, perché è sua la guglia che ha preso fuoco ed è a lui che si attribuiscono quasi tutte le parti scomparse nell’incendio. Interventi, i suoi, oggi graditi a pochi, per la verità nemmeno al suo contemporaneo Victor Hugo, che dopo averne apprezzato le intenzioni, stigmatizzò i risultati in Notre-Dame per i numerosi interventi di integrazione. Però va tenuto conto che l’approccio di Viollet-le-Duc collimava con la visione culturale della classe dirigente, tanto che nel 1840 la Francia possedeva già una legge sul restauro integrativo, secondo il quale è consentito integrare le opere con elementi nuovi a completamento armonico dell’intero organismo architettonico e persino cancellarne la patina del tempo. Un nuovo antico, un neogotico privo dell’abbruttimento imposto dai secoli, appunto, che finalmente raggiunge la sua identità concettuale.

Ecco, oggi parte di questo è bruciato. Bello o inopportuno che fosse, pure il lavoro di Viollet-le-Duc fa parte di un tempo stratificato e rispecchia le concezioni estetiche di un’epoca, che ha pure contribuito molto al recupero della cattedrale.

A patto che le perizie tolgano ogni dubbio sulla possibilità di ricostruire sulle pietre rimaste, possiamo oggi scegliere cosa fare di ciò che resta? Possiamo, o addirittura dobbiamo lasciare un segno tangibile di quanto accaduto e perso? Oppure, sempre sulla scia di un restauro integrativo, rifacciamo tutto come prima, cancellando il meglio possibile i segni della distruzione?

la Gedächtnis Kirche di Berlino

È una questione che torna ogni qual volta la storia ci chieda di fare seriamente i conti con il suo passaggio. In una distrutta Berlino, la Gedächtnis Kirche diventa un luogo di contemplazione e un memoriale contro le guerre. I suoi ruderi fanno parte dell’intangibile post bellico tedesco, perché si ricordi e sia dia senso agli accadimenti.

Converrebbe riportare tutto a com’era per non cambiare i connotati di una Parigi da cartolina? Se è per la destinazione fondamentale di Notre-Dame, ossia di cattedrale cattolica romana, forse non ci sarebbe poi molto da fare. Mentre bruciava la guglia, una folla di ogni età si è riunita a pregare la Madonna, Nostra Signora, per esprimere il proprio dolore e sperare. Una minoranza, si dirà, a cui non manca però urgentemente un tetto per continuare a farlo, vista l’imponente laicizzazione del Paese.

Quella Nazione che in pochi anni ha chiuso più di sessanta edifici sacri per inutilizzo o addirittura per stato di abbandono, in cui solo 1 abitante su 20 frequenta le funzioni religiose cattoliche, come può pensare che sia in gioco in primis il ruolo identitario della cattedrale di Parigi? Se lo è, ciò vale per pochi praticanti, non per la cultura dominante francese, che considera in pratica l’identità cattolica alla stregua di un orologio a pendolo. D’altro canto, si dice che Notre-Dame sia un simbolo, un’opera d’arte che trascende la sua identità cristiana perché appartiene a tutti. Lo sanno soprattutto coloro che l’hanno visitata da turisti. Ne ricordano la bellezza imponente, ma anche l’atmosfera mistica, che appunto proviene dal suo fulcro di luogo sacro.

Forse sarà stata la disattenzione a causare l’incendio. Forse, (ma è pura supposizione in queste ore) il bisogno di contenere i costi di un cantiere aperto nonostante le difficoltà di coprire il budget. Fattori che sono figli del nostro tempo, fatto di precarietà, fretta, marginalità del patrimonio storico artistico, ridotto a luna park per turisti scalpitanti. Sarebbe quindi troppo punitivo scegliere la visione rigorosa di John Ruskin, acerrimo oppositore della visione di Viollet-le-Duc, e convinto sostenitore del potere del tempo e della natura. Secondo il suo sguardo, lasciar fare, conservare ciò che è rimasto, è l’unica cosa che possiamo fare per rispettare il destino di un’opera umana, che è comunque succube del dissolvimento. Orrore, direbbero i più, nemmeno da proporre.

Si farà strada forse una terza via, sempre che si intenda riflettere su quanto i fatti siano figli del proprio tempo. Una via che potrebbe rispondere a molte contraddizioni rese nitide da questo fuoco; una soluzione tecnica rispettosa del passato e della ferita, ma che parli la lingua di oggi.

Che rispetti il culto di chi prega e di chi non lo fa. Che faccia per l’ennesima volta di Notre-Dame un monumento e un luogo vivo, universale e religioso insieme. Perché sarebbe bello non ci fossero schieramenti e contrapposizioni, questa volta, sul destino di questa travagliata e magnifica chiesa. Sarebbe un messaggio che guarda oltre le nostre spalle se l’edificio parlasse di questo tempo veloce, distratto, scettico, ma anche capace di accogliere, mediare, valorizzare ciò che ha. Forse, si può provare a non soccombere anche questa volta, scegliendo di non conservare.